La magia dell’Esercito di Terracotta

Ho visitato l’Esercito di Terracotta nella mia prima domenica libera in Cina. Arrivarci è facile – così mi dicevano – e piena di belle speranze, in una città grande tre volte Roma, mi sono messa alla ricerca del fatidico autobus 306 che dalla stazione di Xi’an porta ai Terracotta Warriors, dopo un’oretta di viaggio. In fondo non era proprio così facile, considerato che a Xi’an ci sono almeno una dozzina di stazioni. Appurato che Google Maps non mi aiuterà salgo a caso su un taxi, il cui conducente, dopo 5 minuti di tentativi in cino-inglese e gesti a caso, capisce dove voglio andare. Il mio meraviglioso tassista non sa una parola di inglese, ma prima di lasciarmi poco lontano dalla stazione – intuendo che da sola potrei girare a vuoto per Xi’an in eterno – mi scrive su un biglietto dove sono diretta impedendomi di perdermi dio solo sa dove. Si, lo ha fatto davvero e ciò mi ha fatto amare ancora di più il popolo cinese.

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Sul bus sono l’unica straniera. Una guida spiega per tutto il tempo in mandarino, ovviamente non capisco nulla, peccato. All’arrivo, una coppia cinese decide di adottarmi e si offre di aiutarmi a raggiungere l’entrata del complesso archeologico. Scesi dall’autobus non è facile orientarsi (indicazioni no, eh?), ed è consigliabile pedinare qualche gruppo di turisti dall’aria sveglia e passo deciso. Una volta varcato l’ingresso, l’area che ospita il mausoleo di Qin Shi Huang è immensa. I 500 guerrieri sono divisi in tre capannoni, di cui il più impressionante è senza dubbio il primo, che ospita la maggior parte delle statue. Il colpo d’occhio lascia senza fiato.

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La caratteristica più nota dei Terracotta Warriors sono i volti dei guerrieri, tutti diversi l’uno dall’altro. Almeno per quelli ancora integri: molte delle statue, alte circa due metri, sono rimaste irrimediabilmente danneggiate durante gli scavi. Ugualmente, a causa dell’esposizione all’aria e alla luce, tutte hanno perso per sempre i pigmenti colorati che le ricoprivano, opera del minuzioso lavoro di 700,000 persone. Ogni statua porta la firma del lavoratore che la costruì. Un modo per catalogare ogni singolo pezzo, ma anche per rintracciare chi non raggiungeva determinati standard qualitativi.

Il secondo e terzo padiglione si trovano a poca distanza dal primo, ma sono meno spettacolari per la minore quantità di guerrieri presenti. Nella parte laterale della seconda fossa è possibile ammirare da vicino alcuni guerrieri posti in teche di vetro.

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Come spiega la mia audioguida, questo arciere è uno dei pochi componenti dell’esercito ad essere stato recuperato completamente intatto, perché reso più solido dalla posizione inginocchiata.

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La maggior parte dei soldati sono dovuti invece passare per un minuzioso restauro che li ha ripuliti dalla terra, catalogati pezzo per pezzo e infine incollati insieme secondo la composizione originale. Un lavoro da nulla, insomma. Nella parte posteriore del primo padiglione è possibile vedere dal vivo il laboratorio dove i guerrieri vengono ricomposti. L’esercito originale ne comprendeva un numero tra i 6000 e gli 8000; finora ne sono stati riportati alla luce 500 e tutti sono ancora collocati nella posizione originale del loro ritrovamento.

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Essendo estremamente fragili, per molti dei guerrieri la ricostruzione integrale è stata impossibile: ce ne sono diversi a cui mancano braccia, mani e soprattutto teste. Un gran numero di statue è rimasto mutilato, vittima degli urti e del tempo. A tal proposito, la mia audioguida mi informa che l’esercito è spesso stato bersaglio di “ladri d’arte”. Il caso più eclatante è quello di un contadino che rubò la testa di un guerriero e che fu scoperto dopo aver provato a rivenderla per la modica cifra di $81,000. Ad oggi, resta l’unico caso di furto punito con la condanna a morte in Cina.

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Per visitare tutto il complesso servono un paio d’ore. Se poi siete come me, che sarei rimasta a contemplare il padiglione 1 fino all’orario di chiusura, anche di più. Almeno finché non vi toccherà cedere lo spazio faticosamente conquistato sulla balconata al successivo turista che attende il suo turno per scattare qualche centinaio di selfie.


The magic of the Terracotta Army

I visited the Terracotta Army on my first weekend off in China. Getting there is easy – that is what I was told – so, ready and set, in a city three times bigger than Rome, I started looking for the 306 bus which leaves for the Terracotta Warriors from Xi’an Station. Well, it wasn’t that easy. There are about a dozen of Stations in Xi’an. Since Google Maps was not helping, I stepped into the first available taxi, whose driver – after 5 minutes of explanations in Chino-English plus random gestures, understands my destination. My amazing driver does not know a single word in English, anyway, before dropping me nearby the right station he gives me a note with directions to find the bus, preventing me to get lost forever. Yes, he really did that, and it made me love Chinese people even more.

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I’m the only foreigner on the bus. A tourist guide gives us some explanations in Mandarin for the whole time and I do not understand a word. That’s a shame. When we arrive, a Chinese couple adopts me by offering to reach together the entrance of the Mausoleum. It’s not easy to find the right path (people could really use some directions, by the way); in case of doubt follow any random group of tourists. Once entered, the area of Qin Shi Huang mausoleum is huge. The 500 warriors are hosted in 3 pits, but the most spectacular is the first one, without any doubt. The majority of the soldiers are placed here. The view leaves me breathless.

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The best-known feature of the warriors is their uniqueness: each face is different from the others. At least for the unbroken ones: many of the statues, about two meters tall, were fatally damaged, and some lack body parts. Similarly, they lost their colourful pigments forever due to the exposition to air and sunlight. The painting was the handiwork of 700,000 workers. Each statue holds the signature of its maker. This was a manner to record each piece, but also to track the workers who did not comply to quality standards.

The second and the third pit are a few meters away from the first one, but less impressive due to the inferior number of warriors. Next to the second pit it’s possible to admire closely a few warriors.

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As my audioguide explains, this archer was one of the few to be found intact, since protected by its kneeling position.

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Many other statues, however, had to be meticulously restored. The fix-up process first removes the dirt, then catalogues each broken piece and, finally, glues each part back together. Quite quick, isn’t it? In the back of the first pit you can the see the open-air laboratory where the warriors are repaired. The original army was formed by 6000-8000 warriors; So far, only 500 have been dug out. Every single piece has been left in its original place of discovery since then.

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As fragile as they are, for many of the warriors a complete fix is impossible: some miss their arms, hands and heads. Victims of concussions and time. As I go on with my visit, my audioguide informs me about “art thieves”: the most serious episode regarded a local peasant who stole a warrior’s head and was caught after he tried to sell it for $81,000. So far, it has been the first and only person sentenced to death for a theft crime in China.

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The visit takes a couple of hours. Maybe more if you’re like me (I could stare at the first pit for hours). But do not worry, you’ll be kicked out by the next tourist claiming for your spot on the balcony to take his thousand long-craved selfies.

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