Capodanno (cinese) in Malesia

Un altro capodanno cinese è trascorso, con il solito esodo di persone che tornano a casa portandosi dietro enormi valigie e buste piene di cibo. Anche quest’anno è stato impressionante vedere un paese fermarsi (le vacanze per il nuovo anno lunare – 春节, chūnjié sono le più lunghe) e mettersi in viaggio, talvolta anche per giorni per chi vive molto lontano dai propri cari. Ci si sente già immersi nella bella stagione, anche se fuori continua il solito freddo. Stanca del cielo grigio di Xi’an ho fatto le valigie per la Malesia. La prima tappa è stata Kuala Lumpur, che mi ha accolto con i suoi 30 gradi. Non c’è stata una singola cosa che non mi sia piaciuta della Malesia: ho adorato il suo cibo, i suoi templi, i suoi paesaggi e il suo verde. La Malesia è il paese più verde che abbia mai visto.

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Giungla urbana

Kuala Lumpur è una città di immigrati, si incontrano persone da tutto il mondo, e c’è qualcosa da fare ad ogni ora del giorno e della notte. Il protagonista indiscusso qui è lo street food. La cucina locale unisce insieme la tradizione malese, cinese e indiana, ovvero i tre grandi gruppi etnici che compongono la popolazione. Trovarmi a due passi dal mercato notturno di Jalan Alor ha fatto sì che ogni sera vagassi su e giù per la strada a scrutare ogni bancarella per decidere cosa mangiare. In Malesia il cibo è una cosa seria e, come in Cina, si mangia a tutte le ore del giorno.

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Questo viaggio mi ha fatto provare una grande nostalgia dell’India. Gli indiani sono il terzo gruppo più numeroso dopo malesi e cinesi. Ovunque sono andata c’era una Little India e una Chinatown con templi dedicati ad ogni credo e mercati aperti fino a tarda sera.

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Se dovessi scegliere la più bella cosa vista a KL, sarebbero sicuramente le Batu Caves. Ci si arriva percorrendo 272 coloratissimi scalini e schivando decine di indiani che si scattano selfie. In cima si trovano due piccoli templi e tante scimmie affamate pronte a strapparvi di mano qualsiasi snack abbiate. E uno dei posti che più desideravo visitare da quando l’ho visto per la prima volta in foto, anni fa. Sarà l’atmosfera sacra, sarà il paesaggio tropicale circostante, davvero non so spiegarlo. Era esattamente come me l’aspettavo e non ho provato quel vago senso di delusione dei posti famosi che subiscono le conseguenze negative del turismo. Sono rimasta senza parole di fronte alla vastità e ricchezza della cultura indiana e avrei tanto voluto avere le conoscenze per capire davvero a pieno cosa stavo vedendo.

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Essendo un quarto della popolazione di origine cinese, la festa per il nuovo anno lunare è molto sentita in Malesia. Questo fa sì che anche qui ci siano grandi masse di persone che si mettono in viaggio. Considerato il traffico, tutto il paese si era riversato a Malacca nello stesso giorno. Mi sono affacciata sul famoso stretto dando un senso alle lezioni di storia che ci hanno insegnato essere una delle più antiche e importanti vie marittime al mondo, mentre la città, passata sotto il dominio portoghese, olandese e poi inglese, oggi è assediata da turisti e da risciò molto kitsch.

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Salutate Malacca e Kuala Lumpur un breve volo mi ha portata a George Town, capitale dell’isola di Penang. Nonostante sia la seconda città più grande della Malesia, gli abitanti non arrivano a 200mila e si può vedere tutto girando a piedi. Come Kuala Lumpur, anche George Town è una città multiculturale dove nella stessa strada si incontrano un tempio indù, cinese, una moschea e una chiesa, con in più l’atmosfera di una piccola città di mare. Non ho mai avuto l’impressione di trovarmi in un paese dove la principale religione è quella musulmana, ma piuttosto in un luogo pronto ad accogliere chiunque.

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Si dice che la cucina di George Town sia la migliore del paese. In dieci giorni ho cercato di provare più piatti possibili e nonostante ciò sento di essermi comunque persa tanto. Ad ogni modo potrei scrivere un post solamente sulla cucina malese, e forse lo farò, perché se ne parlassi ora non finirei più.

Anche George Town, come suggerisce il nome (chiamata come re Giorgio III) è stata una colonia inglese e i suoi edifici storici coloniali le sono valsi la nomina a Patrimonio dell’UNESCO. Purtroppo molti di questi sono lasciati in stato d’abbandono, o peggio, ristrutturati tanto da sembrare nuovi di zecca o trasformati in “heritage cafè” tutti uguali.

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Uno dei pochi luoghi storici rimasto intatto è Campbell Market. Qui i giapponesi arrivati a Penang durante la Seconda Guerra Mondiale radunarono e uccisero i cinesi di George Town, proprio nel un luogo dove ogni giorno gli abitanti della città andavano a fare la spesa. Campbell market resta in piedi non soltanto per rispetto alle sua storia, ma anche perché si dice sia stato costruito su un cimitero malese e perché sorge di fronte ad un incrocio (il numero 4 in cinese ricorda la parola “morte”). In sostanza non è ancora diventato un hotel perché si pensa porti sfortuna.

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Una guida del posto mi ha spiegato che anche la Little India di George Town sta lentamente scomparendo perché gli indiani che ci vivono diminuiscono di anno in anno e, di conseguenza, tra qualche tempo la città avrà un aspetto completamente diverso da quello che ha oggi. Little India è stato il mio grande amore malese con i suoi negozietti pieni di sari colorati, le bancarelle di street food e la musica di Bollywood che suonava nelle strade. Penang è stata decisamente la parte migliore del mio viaggio. Uscendo da George Town c’è uno dei templi buddisti più belli che abbia mai visto: Kek Lok Si, il più grande della Malesia.

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Ho festeggiato il nuovo anno del maiale appendendo anche io i miei nastri augurali. Si paga il biglietto d’ingresso solo per salire sulla pagoda, da dove si ammira tutta l’area del tempio.

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L’ultimo giorno sono stata al Parco Nazionale di Penang, dove ci sono le più belle spiagge dell’isola: quella delle Scimmie e quella delle Tartarughe. L’ingresso è gratuito dopo esservi registrati e aver lasciato il vostro numero in caso vi perdeste all’interno del parco. Per quel che serve, dato che il segnale sparisce del tutto dopo pochi minuti. Per arrivare alla spiaggia si cammina un bel po’, o in alternativa c’è la barca. Per arrivare alla spiaggia delle tartarughe ci vuole un’ora e mezza di cammino, non proprio agilissimo. Non mi sono persa, non c’era nessuno e arrivata alla spiaggia non mi aspettavo tanta bellezza tutta per me. È stata decisamente l’esperienza più bella del viaggio.

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Sono rimasta a godermi il paesaggio, il cielo blu e il mare prima di farmi di nuovo un’ora e mezza di cammino. Prima di lasciare la Malesia ho salutato Little India e mangiato la mia ultima cena indiana. Mi è davvero dispiaciuto tornare: la Malesia è forse il paese più vicino all’idea che nella mia testa c’è dell’Asia e a differenza che in Thailandia non ho avuto mai l’impressione di trovarmi in una trappola per turisti. E soprattutto ai suoi visitatori offre tantissimo: natura, mare, cibo incredibile. Mi sono imbarcata sul mio volo Air Asia insieme a decine di cinesi di ritorno a casa e mi sono sentita già in Cina. Ho fatto la trafila all’immigrazione e un’altra ora in taxi sulla solita strada percorsa tante volte dall’aeroporto a sud della città, mentre fuori dal finestrino scorrevano i grattacieli di Xi’an immensi e scintillanti di luci. Un’immagine a cui mi sono abituata, che per quanto assurdo possa essere sai che porta verso la tua casa dall’altra parte del mondo. Sarà la stanchezza delle ore di aereo che non ho mai voglia di farmi, ma quella casa penso che potrebbe stare qui come ovunque e non mi sembrerebbe poi così strano.

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